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giovedì 15 novembre 2012
Trend formazione
FORMAZIONE, IN ITALIA
E' ANCORA AL PALO
Sul numero di Ottobre de “L’Impresa” c’è un interessante
articolo di Elio Borgonvi, che commenta i risultati dell’ultimo rapporto dell’Osservatorio
Learning di ASFOR (Associazione Italiana per la Formazione manageriale). “Tutti
concordano nel dire che la formazione manageriale è un fattore chiave per
rilanciare il Paese, ma in realtà in azienda le decisioni strategiche non la
contemplano”, dice Borgonvi, citando i dati.
Un trend negativo
“ Delle 70 aziende di medie e grandi dimensioni, nazionali e
internazionali con sedi in Italia (…), ben i 34,8% evidenzia una riduzione del
budget destinato alla formazione. Segnale indubbiamente negativo rispetto al
17,7% dell’anno precedente anche se non drammatico, visto che solo il 12%
dichiara tagli superiori al 10%, che il 12,1% dichiara un aumento di spesa e il
40,9% una stabilità”.
Decisioni rimandate
“L’incertezza domina le previsioni per il prossimo anno, tenendo
conto (…) soprattutto del 43% che non risponde in quanto, presumibilmente, non
è in grado di dare indicazioni significative sulla base dell’andamento
aziendale nel primo quadrimestre 2012. (…) Peraltro alcuni segnali positivi
vengono dal 15% di rispondenti che prevedono un maggiore investimento in
formazione come leva per superare la difficile fase storica.”
La domanda di formazione
“Secondo i canoni del buon management, la risposta ai
vincoli della limitatezza di risorse viene data su due fronti. Da un lato, le
imprese hanno cercato recuperi di efficienza nella scelta di programmi e di
fornitori che garantivano un migliore rapporto qualità-costo, nella scelta di
metodologie più efficaci sul piano didattico (ad esempio distance learning o
uso di piattaforme per l’interazione tra i partecipanti dopo i corsi),
partnership con i principali fornitori finalizzati alla coprogettazione. (…)
I soggetti che esprimono la domanda esprimono una forte
esigenza riguardante la leadership (non solo per il top management, ma anche a
livelli intermedi), l’aggiornamento delle competenze professionali e
manageriali (legati soprattutto all’emergere di nuovi profili professionali e
di rafforzamento delle competenze soft per le posizioni manageriali).”
La funzione formazione è ancora troppo poco strategica
“Mentre la maggioranza dei soggetti (…) dichiara di avere un’unità
organizzativa specifica responsabile della formazione (67%) o una corporate università
(17%), la maggior parte conferma la tendenza manifestata negli ultimi anni,
secondo cui la formazione avviene al livello locale. Come negli anni precedenti
viene valutata molto elevata l’integrazione con i responsabili di business (7,8 in una scala da 1 a 10), mentre deve ritenersi
ancora inadeguato l’inserimento della formazione nelle generali politiche
aziendali poiché la frequenza di interazione con i capi azienda è a livello di
6,4 rispetto al massimo di 10, dato peraltro previsto in aumento per i prossimi
anni (da 6,4 a
7,6).”
lunedì 12 novembre 2012
Pillole di coaching di gruppo - 7
IDENTIFICARE I COMPORTAMENTI-
BERSAGLIO: UN ESEMPIO PRATICO
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Di norma, e giustamente, il
formatore che riceve un incarico da un’azienda s’accerta bene d’essere in
sintonia con essa anzitutto sugli obiettivi.
Ad esempio, se si parla di
formazione di manager, ci si accorderà sul fatto che andranno condotti a essere
più razionali nelle decisioni, più responsabili nell’accettare il rischio, o
più partecipativi nel gestire i collaboratori. Se si parla di personale
commerciale, si vorrà ottenere che ascolti il cliente, che sia maggiormente
aggressivo sul territorio, o maggiormente organizzato. Se i destinatari
dell’intervento di formazione sono, poniamo, impiegati dell’amministrazione, li
si vorrà forse più attenti a gestire l’importanza anziché l’urgenza, per
programmare meglio il proprio agire.
Ora, su questi solidi valori
professionali, è difficile non trovarsi d’accordo a priori tra formatore e
committente.
A volte ci si ferma qui, altre volte
si cerca di andare un po’ più nel pratico, ma ciò che spesso non viene fatto
abbastanza, è di concordare nel dettaglio e a priori i comportamenti osservabili
che le persone dovranno poi utilizzare per mettere in pratica tali valori, cioè
quelli che abbiamo chiamato comportamenti-bersaglio, e che sostituiscono i veri
obiettivi della formazione.
Essi vanno invece concordati e
descritti con la direzione aziendale sin dall’inizio della fase di
progettazione, per vari motivi.
a) Avere un elenco di comportamenti
dettagliati a cui far tendere il gruppo è una “bussola” di valore inestimabile
per il coach.
b) Questa bussola consentirà non
solo di tracciare un programma improntato al pragmatismo e non allo sfoggio di
cultura, ma anche di poter dire a priori, riunione per riunione, quali
comportamenti verranno condivisi con i coachee.
c) Ciò permette di rendere misurabile
l’efficacia dell’intervento, sì che dopo ogni riunione sappiamo che certi
comportamenti dovrebbero cominciare a comparire qua e là. Si può quindi parlare
di efficacia non solo misurabile, ma addirittura programmata, nel senso che è
possibile predire da quale data un certo comportamento inizierà a essere
sperimentato nella prassi.
I passaggi per identificare i
comportamenti-bersaglio, così come abbiamo potuto svilupparli in quattro anni
di sperimentazione, sono i seguenti.
1.
Descrizione dei valori professionali ai quali ispirare la formazione-coaching
di gruppo. Questo passaggio è realizzato con le modalità usuali dell’intervista
alla committenza, così come viene già normalmente fatto durante la fase di
progettazione.
2. Identificazione delle situazioni nelle
quali la committenza individua le aree di miglioramento. Un’area di miglioramento nei comportamenti
non si palesa e non è ugualmente rilevante in tutte le situazioni professionali
osservabili. Occorre quindi limitare il campo dell’analisi, individuando le
situazioni specifiche in cui si desidera un cambiamento. Tali situazioni vanno
descritte in termini di input e di output verso e da i destinatari
dell’intervento formativo.
Occorre cioè descrivere, per
ciascuna situazione, quali input arrivino alla persona dall’ambiente, e quali
output normalmente essa invii come risposta.
Facciamo un esempio pratico. Il
trainer ha ricevuto dalla Direzione HR il compito di trasferire a un gruppo di
impiegati amministrativi le tecniche ed i criteri di gestione e organizzazione
del proprio tempo (Time Management).
Nella nostra ipotesi, la committenza
desidera che le persone inizino a ragionare per priorità, e non per urgenza (valore professionale).
Alla richiesta di descrivere le situazioni, così si esprime
il committente:
“Il loro lavoro è continuamente scandito da interruzioni da parte di
clienti interni - tipicamente i
commerciali, ma non solo – e da colleghi, che richiedono informazioni e
consigli o che sollecitano l’avanzamento di talune pratiche, per esempio la
fatturazione attiva o il pagamento di certi fornitori. Normalmente il loro
approccio consiste nell’interrompere qualsiasi cosa stiano facendo, per dare
una risposta immediata all’utente o collega, nell’intento evidente di
liberarsene nel più breve tempo possibile. Il che si traduce, quasi sempre, in
una risposta interlocutoria, come “la tua fattura dovrebbe essere emessa in un
paio di giorni”, ma non in una vera risoluzione del problema. Il
risultato è che la persona si è interrotta, ha perso del tempo, e il problema
non è stato risolto; questo avviene decine di volte al giorno per ognuno di
loro, e non di rado alla sera ci si rende conto che non si è combinato nulla di
conclusivo né per gli utenti, né per il lavoro al quale ci si stava dedicando e
che è stato interrotto tante volte.”
Qui abbiamo almeno due situazioni (il collega che chiede informazioni o
consigli, e l’utente che indirizza dei solleciti riguardanti la fatturazione
attiva o i pagamenti), che hanno input tecnicamente simili ed un identico output:
una risposta evasiva.
L’intento è quello di liberarsi del
collega o dell’utente nel più breve tempo possibile, e sarà interessante, nel
proseguimento della fase di progettazione e anche durante il coaching, di
verificare quali paradigmi nascosti determinino tale comportamento. Per ora si
può ipotizzare che essi siano i seguenti tre, o altri ancora:
-
la
convinzione che “dare retta” al collega o al cliente interno rappresenti una
perdita di tempo;
-
la
convinzione che, se si promettesse a un collega o a un cliente, di risolvergli
davvero il problema in un momento migliore, ma a breve, sarebbe una promessa
vana e comunque che non si sarebbe creduti;
-
la
convinzione di non essere padroni del proprio tempo, e che bisogna in qualche
modo “far stare buoni” colleghi e utenti, per non ricevere rimbrotti dai capi.
Molte possono essere le cause, ma non è il caso di dare un
credito assoluto a quello che ne dice il committente – il quale è pur sempre
una persona e quindi ci darà un parere, che non è detto corrisponda alla realtà.
Molto più produttivo sarà, in questa fase, concordare
quali comportamenti sarebbe auspicabile
sostituissero progressivamente quelli in uso.
Ora, si potrebbe ad esempio concordare con la committenza che
i comportamenti-bersaglio saranno:
*
Dedicare
attenzione all’ascolto dell’utente in quel momento se ciò che si sta facendo
non riveste importanza o – a parità d’importanza – urgenza maggiore
*
Nel
caso in cui si decida che non ci si può occupare in quel momento della
richiesta dell’utente o del collega, proporgli di risentirsi dopo un tempo
ragionevole (es. due ore).
*
Appuntarsi
di richiamare l’utente o collega nel momento concordato. Ri-concentrarsi su
quanto si stava facendo.
*
Tener
fede alla promessa fatta al collega/utente.
Come si vede, le competenze da potenziare qui sono l’ascolto
attivo, la capacità di classificare gli impegni e le attività per importanza,
la negoziazione con il collega o l’utente.
Si noti: quanto faceva e fa la formazione tradizionale è
assolutamente raccomandabile, e noi stessi proponiamo di continuare a farlo. Sino
ad ora, la formazione tradizionale si limitava a far condividere l’opportunità
logica, etica o organizzativa dei valori, descriveva tecnicamente i
comportamenti, e proponeva una serie di esercitazioni per iniziare a sviluppare
le competenze. In altri casi, nel far condividere la correttezza dei valori,
passava a spiegare le basi scientifiche o teoriche delle competenze, per
concludere “mimando” i comportamenti e facendoli esperire in aula nel corso di
role-.playing o altri giochi di gruppo.
Quello che la formazione tradizionale di solito non fa è
piuttosto di stimoolare i membri del gruppo a trovare il
“proprio stile” nell’applicare la tecnica o il comportamento specifico.
Nella fattispecie qui descritta, si potrebbe – per fare un
esempio – chiedere a tutti di immaginarsi con quali parole chiedere al
collega/utente di pazientare due ore.
Poco importa che il “testo” del messaggio che ne uscirà sia
pienamente ortodosso secondo i dettami della Programmazione Neurolinguistica o
della Comunicazione Assertiva. L’importante è che non contenga errori tattici
notevoli e soprattutto che le parole che lo compongono siano frutto spontaneo
della libera elaborazione dei coachee. Se è un prodotto delle loro menti, allora
suonerà loro naturale e credibile.
Il che consentirà loro di utilizzare quella frase con
convinzione e credibilità.
Esiste dunque un legame stretto fra le potenzialità di una
persona o di un gruppo, e quello che abbiamo chiamato “il suo stile”. Teoricamente,
non sarebbe necessario porre in evidenza
ed esplicitare tale legame (“scegliete questa frase e non sorprende, perché
denota una spiccata curiosità per gli esseri umani, che come abbiamo visto è
una peculiarità di questo gruppo”), però è opportuno, perché consolida
l’identità del gruppo stesso.
Una volta che il gruppo, o i coachee individualmente o a
coppie, ha elaborato le modalità con le quali utilizzare il
comportamento-bersaglio secondo il proprio stile, saremo ormai verso la fine
della riunione, che dovrà concludersi con l’impegno, da parte di tutti, di
sperimentare l’applicazione di quanto concordato nel periodo che intercorrerà
sino alla riunione successiva.
giovedì 25 ottobre 2012
Le perplessità sulla formazione - i risultati
I RISULTATI DEL NOSTRO SONDAGGIO
Pubblichiamo i risultati del nostro sondaggio.
Hanno risposto, qui nel blog o nei vari gruppi di LinkedIn, quarantuno persone.
Al primo posto si collocano le perplessità sulla reale efficacia della formazione (34,92%), seguite dai costi (25,40%), il che sembra indicare che la formazione è percepita problematica anzitutto nel rapporto qualità-prezzo. Ciò però non sembra dipendere da precedenti esperienze negative (11,11%), perché questa risposta, staccatissima, si colloca al quarto posto , né dal pragmatismo della formazione offerta, a quanto pare, perché a parere dei rispondenti, la convinzione che sia "tutta teoria" è nettamente minoritaria (4,76%).
Abbastanza staccato dalle prime è l'elemento-tempo (14,29%).
Questo per quanto riguarda le cinque possibilità che avevamo immaginato a priori. Conteggiando però i pareri espressi da alcuni rispondenti, che mettevano al centro della questione la cultura aziendale o la mentalità dei manager (voci sotto le quali abbiamo ricompreso le risposte di chi ad esempio definiva poco inclini al cambiamento e alla strategia le nostre imprese), queste due categorie di risposta ammontano, sommandole, al 12,7% (con la cultura aziendale al 7,94% e la mentalità dei manager al 4,76%).
E' possibile che, se avessimo inserito a priori queste due voci tra le possibili risposte, il loro peso relativo sarebbe stato ancora maggiore, ma il segnale c'è e dobbiamo considerarlo.
Interpretando questi dati, viene da chiedersi: di quanto la percezione del rapporto qualità-prezzo è influenzata dalla cultura e mentalità dell'utenza stessa, e quanto effettivamente tale rapporto è da migliorare?
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lunedì 22 ottobre 2012
I sei principi del metodo TiPERSEI - g
LA DIMENSIONE SOCIALE
DELL'ESPERIENZA
NEL COACHING DI GRUPPO
T6 - Trasformazione in esperienza - Tra una riunione e l'altra, ciascuno proverà ad applicare quanto condiviso. Fatalmente, in una fase di apprendimento, non tutti i tentativi saranno coronati da successo: nella riunione successiva, ogni membro del gruppo di lavoro potrà descrivere le proprie vittorie e difficoltà, trasformando in esperienze, con l'aiuto del coach, persino gli episodi di inefficacia.
Uno dei meccanismi più frustranti e demotivanti, per chi ha partecipato a un seminario di formazione, si attiva dopo il corso, quando il "discente", magari entusiasta, si ritrova immerso in un gruppo in cui alcuni non hanno capito, altri vorrebbero provare ma non se la sentono, altri ancora non riescono, e qualcuno ha mantenuto un atteggiamento di disincanto e scetticismo.
In questo caso, quasi tutto il gruppo ha recepito il messaggio, ma solo la minoranza ha in sé le risorse cognitive e motivazionali per applicare davvero quanto appreso.
E il conformismo riprende presto il sopravvento.
Di fatto, questo non è un gruppo psicologico, ma solo un gruppo statistico: nel senso che si tratta di un insieme di singoli, che non si riconoscono tra loro come membri di un gruppo di avanguardia e portatore di cambiamento nell'organizzazione.
E' mancata l'elaborazione di obiettivi comuni, di modalità di comportamento non solo condivise, ma fatte proprie (e magari elaborate) dal gruppo stesso. Non è stato stipulato un patto sociale. Non esiste un nuovo "galateo tra colleghi".
Questo rischio è tanto più forte quanto più le competenze che sono state al centro dell'intervento formativo sono apparentemente individuali (si pensi al Time Management), o i "discenti" operano di norma in solitudine (ed è il caso delle Tecniche di Vendita, ma l'elenco sarebbe lungo).
Per questa ragione è molto importante che il coach si rivolga costantemente al gruppo nel suo insieme e non ai singoli suoi membri. Nel coaching di gruppo
il coach è tale nei confronti del gruppo nella sua interezza. Deve cioè relazionarsi
al gruppo come si relazionerebbe a un singolo individuo, dotato di una sua
propria personalità, che non è la “somma algebrica” di quelle dei suoi membri,
ma qualcosa di differente – anche se, come è ovvio, ne è influenzata.
Solo così potrà innescare l’elaborazione di un patto sociale interno al gruppo, che trasformi i
valori professionali e i comportamenti-bersaglio che vengono via via condivisi
in una specie di decalogo, di “galateo tra colleghi”, e che rappresenti il
momento fondante della nuova identità del gruppo dei coachee.
Nel metodo TiPERSEI questo è previsto in un momento ben preciso, a partire dalla seconda riunione in poi, proprio all'apertura dei lavori, quando i singoli membri mettono in comune con gli altri il proprio vissuto, maturato sperimentando i comportamenti - bersaglio appresi nella riunione precedente con la supervisione del coach. In questo modo si sedimenterà un patrimonio di esperimenti collettivo, di tentativi dall'esito felice (si fa così) e meno efficace (meglio non fare così), che andrà ufficializzato e fatto esplicitamente approvare dal gruppo nel corso del dibattito.
giovedì 18 ottobre 2012
I sei principi del metodo TiPERSEI - f
AIUTARE I COACHEE A TROVARE
IL PROPRIO STILE NATURALE
T5 - Traduzione
personale - In ogni riunione, il tempo dedicato
alla didattica classica non eccede mai il 33%. Nel tempo restante, oltre a
esercitazioni, filmati, role playing, si stimolano i componenti del gruppo ad immaginare il proprio
modo personale per l'utilizzo immediato dei principi
appresi - cioè dei comportamenti-bersaglio stessi.
Nella
formazione il trainer ha solo il tempo di “mimare” i comportamenti per
trasmettere un’idea di come vadano declinati in concreto, e di farli provare
una o due volte.
Come
quando si insegna uno sport, teoricamente si avrebbe bisogno di far ripetere il
“gesto” molte decine di volte, finché il “discente” non riuscirà a
restituircelo uguale a come il docente se lo aspetta.
Ma
anche prescindendo dall’elemento-tempo, si tratta pur sempre di comportamenti
enormemente più complessi di un gesto atletico. Una cosa è far imparare la
corretta posizione per effettuare una curva sugli sci, o per tirare con l’arco;
tutt’altra questione è insegnare a un manager, per esempio, ad essere autentico
e credibile nel criticare costruttivamente un collaboratore.
Colui
che sta apprendendo, durante il corso ha solo la possibilità di capire cosa sia
opportuno fare, ma non di come farlo. Può farsene una vaga idea nel momento in
cui osserva il trainer “mimare” il comportamento, o mentre si commentano i role
playing. Ma rimane un’idea vaga, e per di più creatasi in una situazione
sperimentale, artificiosa.
Quando
si troverà a dover criticare davvero un collaboratore, il nostro manager tenterà
di atteggiarsi come ha visto fare al trainer, o come ritiene di dover
atteggiarsi secondo le sue indicazioni. Ma non si atteggerà secondo le sue
personali inclinazioni, secondo il suo stile naturale, adottando cioè il registro
di comunicazione che, sia pure nel rispetto della tecnica che ha appreso,
risponde alle caratteristiche della sua personalità.
Questa
operazione di “traduzione personale” consiste nel trasferire i contenuti della
tecnica nel linguaggio verbale, non verbale e paraverbale che più si avvicina
al naturale comportamento della persona. Si tratta di un’operazione cognitiva
ed emozionale che solo il diretto interessato – il discente – può effettuare. Ma
è ben raro che il povero discente, dopo il corso, trovi in sé un sufficiente
grado di consapevolezza.
Si
tratta quindi di una operazione che va innescata, stimolata e guidata in sede
di training, da parte del coach. In questo le tecniche di coaching sono
insostituibili, perché in questo senso il coach – diversamente dal trainer - non
dà consigli. Come scrive giustamente un guru del coaching, John Whitmore, ““Se io vi do un consiglio, soprattutto se
non richiesto, e voi lo seguite, ma ottenete un pessimo risultato, che cosa
fate? Darete la colpa a me, ovviamente, il che è una chiara indicazione di dove
voi vedete che la responsabilità risiede.”
Per
questa ragione, ogni riunione condotta con il metodo TiPERSEI si chiude con una
breve sessione nella quale ogni coachee è chiamato a immaginare e a mimare le
modalità concrete con le quali si sentirà di adottare il nuovo comportamento. Una
volta fissata nella memoria questa nuova modalità d’azione, sarà meglio in
grado di sperimentarla sul campo, in vista della riunione successiva.
lunedì 15 ottobre 2012
I sei principi del metodo TiPERSEI - e
GESTIRE CON I COACHEE
LE PICCOLE
VITTORIE E SCONFITTE
T4 - Tutorship - Tra una riunione e l'altra, il coach si trasforma in tutor, per monitorare i progressi di ciascuno, raccoglierne le esperienze, stimolare l'applicazione dei comportamenti-bersaglio che si stanno apprendendo.
L'errore, l'insuccesso, è probabilmente il primo nemico dell'apprendimento.
Si tratta infatti di una situazione altamente frustrante, che però purtroppo si verifica molto frequentemente.
Chi ha preso parte a un seminario, a un coso di formazione comportamentale, magari gestito da un traner di ottimo livello, se ne torna al lavoro, il giorno dopo, carico di entusiasmo.
La riunione formativa gli ha aperto nuovi orizzonti, sente di avere tra le mani una grande opportunità per lavorare meglio, ottenere risultati migliori, mettersi in luce, o semplicemente far meno fatica.
Ha la sensazione di aver compreso le tecniche apprese, e di essere in grado di applicarle.
Sa bene di non essersene ancora impadronito del tutto, ma è fiducioso di poter cominciare ad utilizzarle con confortanti risultati.
Nella parte finale del corso, probabilmente, avrà partecipato a prove pratiche, forse a dei role playing, al termine dei quali il trainer - insieme a qualche garbata correzione, gli avrà dato ampi segnali di incoraggiamento, il che lo induce a ritenere di essere già sufficientemente all'altezza della nuova sfida.
Ammesso e non concesso che il caos del sistema, nel quale si ritrova di colpo catapultato (spesso con una valanga di arretrati che si sono accumulati nel frattempo), non lo ostacoli troppo, egli a questo punto proverà le nuove tecniche, i nuovi comportamenti. A questo punto accadono tre cose.
a) ottiene dei buoni risultati, ma seguendo dei percorsi non del tutto ortodossi, perché la realtà che gli si è presentata davanti non era esattamente uguale alle situazioni "sperimentali" affrontate nel corso; ciò lo lascia perplesso, comincia ad avere dei dubbi, non dispone di una chiave di lettura che gli consenta di capire perché ciononostante egli abbia avuto successo, e soprattutto non gli è chiaro dove e in che modo la tecnica lo abbia aiutato e dove non sia stata applicata;
b) la realtà, per come gli si presenta, non gli dà la sensazione (a torto o a ragione) di poter applicare la tecnica così come l'ha appresa, così per il momento soprassiede, senza riuscir bene a capire se avrebbe dovuto ugualmente tentare oppure no;
c) prova ad applicare la tecnica, ma non essendo ancora un esperto commette errori od omissioni, magari non si accorge di aver invertito l'ordine di certi passaggi; cosicché il risultato è molto inferiore alle sue attese, senza che lui possa capire fino in fondo dove e perché ha sbagliato.
Se la persona è perseverante, è assai probabile che, tentando e ritentando, queste tre situazioni si verifichino tutte. Il risultato, per la sua motivazione ad apprendere, rischia di essere devastante. Scoraggiato, abbandonato a sé stesso, senza nessuno che lo aiuti a capire il perché dei suoi insuccessi e degli eventuali successi, pressato da un ambiente che ovviamente non collabora più che tanto, progressivamente comincia a temere i propri stessi errori. E si rifugia nelle vecchie abitudini, borbottando tra sé e sé che evidentemente il coso non gli ha giovato come credeva, forse perché le nuove tecniche non sono nelle sue corde, o magari perché "era tutta teoria, e la mia realtà è diversa da quanto descritto nel corso".
Per ovviare a questi rischi, il metodo TiPERSEI prescrive che il coach, tra una riunione e l'altra, si trasformi in tutor, e segua a distanza (via telefono, email o in videoconferenza) i vari coachee, per stimolarli ad applicare i comportamenti-bersaglio, risolvendo i loro dubbi, rispiegando le tecniche, sostenendoli nella motivazione, ma soprattutto fornendo loro una chiave di lettura degli esiti dei loro tentativi.
A volte questa tutorship si trasforma in vere e proprie sessioni di coaching individuale.
I dati ci dicono che questo principio del metodo, se correttamente applicato, può moltiplicare per due la sua efficacia globale.
martedì 9 ottobre 2012
Le perplessità sulla formazione
PARTECIPA AL SONDAGGIO
Qui a fianco
Secondo la tua esperienza, nella o nelle aziende in cui hai lavorato o che conosci, quali sono le principali perplessità che frenano imprenditori, manager e aziende a iniziare dei programmi di formazione?
Abbiamo immaginato cinque possibilità:
a) L'efficacia: scetticismo generico sulla reale possibilità della formazione di incidere su comportamenti e risultati (es. per refrattarietà dei destinatari)
b) Il costo: ritenuto a torto o a ragione troppo elevato
c) Il tempo: si ritiene che coloro che dovrebbero partecipare al progetto di formazione siano troppo impegnati
d) Teoria: si ritiene, per assunto o esperienza pregressa, che la formazione sia troppo teorica e per questo, in sostanza, inefficace
e) Esperienze negative: in passato ci si è gia rivolti a trainer/coach, ma con risultati che si ritengono negativi
Il sondaggio verrà chiuso il 31 ottobre, pubblicheremo poi i risultati.
Grazie per la collaborazione.
a) L'efficacia: scetticismo generico sulla reale possibilità della formazione di incidere su comportamenti e risultati (es. per refrattarietà dei destinatari)
b) Il costo: ritenuto a torto o a ragione troppo elevato
c) Il tempo: si ritiene che coloro che dovrebbero partecipare al progetto di formazione siano troppo impegnati
d) Teoria: si ritiene, per assunto o esperienza pregressa, che la formazione sia troppo teorica e per questo, in sostanza, inefficace
e) Esperienze negative: in passato ci si è gia rivolti a trainer/coach, ma con risultati che si ritengono negativi
Il sondaggio verrà chiuso il 31 ottobre, pubblicheremo poi i risultati.
Grazie per la collaborazione.
lunedì 8 ottobre 2012
I sei principi del metodo TiPERSEI - d
FULL IMMERSION O
IMPARARE FACENDO?
I "corsi" non bastano per imparare, ma solo per capire.
Per lungo tempo la formazione comportamentale ha propugnato la validità della "full immersion": per tre-quattro giorni - persino cinque in qualche caso - i dodici-quindici partecipanti a un corso manageriale venivano chiusi in un bell'albergo, in una amena località di villeggiatura, e rimanevano in riunione formativa dalle nove del mattino alle sette di sera, con una breve pausa-pranzo e qualche "coffee-break" a conforto.
La sera poi, durante la cena, era di nuovo il trainer a tener banco, e non di rado accadeva persino che egli continuasse a dispensare consigli, cultura e saggezza sino a tarda sera, davanti al caminetto nella hall dell'albergo con un drink in mano.
Si riteneva che, isolando per un congruo periodo di tempo le persone dal proprio ambiente, stimolandole in continuazione e "sfidandole" su un terreno per loro nuovo, si potesse cambiarne in profondità l'approccio, se non la mentalità. L'idea di fondo consisteva in sostanza nel "dare una scossa" all'ambiente, nel tentativo di innescare una rivoluzione di pensiero nel breve volgere di una sola settimana di lavoro.*
Questo tipo di approccio a volte sortiva in effetti dei risultati confortanti e visibili. In qualche caso, riusciva davvero a stimolare l'inizio di un profondo processo di cambiamento - che però, fa bene ricordarlo, aveva successo solo se in seguito l'azienda lo supportava veramente, il che non accadeva spesso.
Ma accadeva anche, e non di rado, che la settimana di full immersion, passato il breve periodo di entusiasmo, rimanesse nei fatti, già a distanza d'un mese, lettera morta.
La ragione di ciò va ricercata, oltre che nel già citato disimpegno dell'azienda nel sostenere il cambiamento, anche in un limite oggettivo di questo tipo di approccio.
Un limite, o meglio un malinteso, che riguardava il significato stesso dei corsi di formazione: esisteva cioè l'erroneo presupposto che il corso fosse sufficiente di per sé, che bastasse ad imparare.
Invece no: il corso serve a capire. Capire se stessi e il proprio ambiente, capire le tecniche e gli approcci che il trainer propone. Ma tra capire e imparare c'è la stessa differenza che passa tra la teoria e l'applicazione, tra la regola e la realtà, tra il progettare e il realizzare.
Ognuno può tornare con la memoria a un corso
di formazione al quale egli abbia partecipato in qualità di “discente”, come si
suol dire. Al termine di un corso ben concepito e condotto, spesso ci si sente
pieni di entusiasmo, con una gran voglia di sperimentare dal vivo quanto vi è
stato illustrato, sia esso una tecnica per scatenare la creatività, o un
particolare approccio al negoziato, o magari una determinata fase del processo
di selezione o di valutazione del personale.
Il “discente”, dunque, torna al suo posto di lavoro, e –
ammesso che l’entropia del sistema non prenda il sopravvento – si mette alla
prova. Essendo però pur sempre discente,
commette probabilmente errori e ingenuità, prende coscienza in modo spesso
demotivante della propria ovvia maldestrezza. Una maldestrezza che, attraverso
i mediocri risultati ottenuti, lo porterà spesso a concludere di non essere
“tagliato” per quella specifica tecnica, oppure che la medesima è “pura
teoria”, non applicabile alla sua realtà specifica.
Ma da cosa nasce quella maldestrezza?
Mancanza d’allenamento guidato, certamente - e qui il coaching aiuta molto. Ma
soprattutto nasce dal non aver ancora potuto far propria quella tecnica,
impadronirsene come di qualcosa che fa parte di lui. Essa gli è ancora
estranea. Probabilmente l’avrà vista “mimare” in aula dal trainer, il quale
però l’avrà “mimata” con il proprio stile, usando le risorse della sua
personalità. E il povero discente si trova così a scimmiottare il trainer o a
cercare alla cieca il proprio stile.
E’ in questa estraneità, che
s’incaglia il più delle volte il processo di apprendimento. Chi ha partecipato
a un corso lo sa bene: è raro che chi lo ha gestito non sia riuscito ad
ottenere comprensione ed adesione, ma il difficile viene dopo - ed è proprio sul difficile, nel "dopo" che la formazione tradizionale lascia soli i "discenti". Proprio nel momento in cui dovrebbero imparare davvero, imparare facendo, quando avrebbero bisogni di qualcuno che li segua e li incoraggi, che li sostenga e li corregga negli errori e ne metta in evidenza i successi**.
TiPERSEI nasce anche da questo: dalla necessità cioè di favorire un apprendimento, rapido sì, ma graduale e "naturale", cioè scandito dai modi e dai tempi dell'esperienza, dell'imparare facendo. Ecco perché ogni progetto TiPERSEI è organizzato su più riunioni brevi, in ognuna delle quali si affrontano in profondità pochi aspetti o tecniche per volta, intervallate da periodi di circa tre settimane di lavoro normale, durante le quali i coachee, con l'aiuto del coach, possono sperimentare subito quanto è stato condiviso nelle riunioni stesse.
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* Nel corso degli anni, questo genere di formazione si è arricchito di ulteriori strumenti, che vanno dalle sessioni di meditazione ai giochi di gruppo en plein air, sino al bungee jumping e alle camminate sui carboni ardenti, o alle tecniche teatrali. Si iniziò a parlare, ed ancor oggi si parla, di formazione esperienziale e di outdoor training. Non è questa la sede per affrontare vantaggi e limiti di queste tecniche di formazione.
**Accanto a questo limite, la formazione full immersion ne sconta oggi un altro: il fatto che i manager, o comunque le persone sulle quali l'azienda ha deciso di investire in formazione, hanno sempre meno tempo disponibile per assentarsi dalla normale operatività, e si fa sempre più difficile poter organizzare un corso residenziale di tre o quattro giornate consecutive a tempo pieno.
venerdì 5 ottobre 2012
I sei principi del metodo TiPERSEI - c
LA FORMAZIONE: AMPIEZZA O
PROFONDITA'?
T2: "Troppi? No, grazie!" - TiPERSEI è un percorso di sviluppo/formazione a tecnica mista: accanto alle modalità più avanzate di formazione maieutica, esso fa largo impiego delle tecniche di coaching di gruppo. Ciò implica che ogni gruppo sia formato da non più di sei persone, e che ogni riunione di TiPERSEI si concentri su non più di due-tre comportamenti-bersaglio.
Accade di frequente, nella formazione tradizionale: sin dalla fase di progettazione, si tende - trainer e cliente - ad allargare il campo d'azione, sia per quanto riguarda il nòvero dei costrutti e delle tecniche da proporre nel corso, sia per quanto riguarda il numero dei partecipanti.
Si tratta di una scelta che allarga l'ampiezza dell'intervento sui contenuti, sui destinatari o - ahimè più spesso - su entrambi.
Di solito, il committente tende ad ampliare la platea dei destinatari, mentre il trainer allarga la gamma dei contenuti da proporre nei corsi.
In particolare, il committente è spinto da due ordini di ragioni, una economica e l'altra - per così dire - "politica".
Sul piano economico, il fatto che il budget del corso sia ormai deciso può indurre ad allargare il numero dei partecipanti, al fine di abbassare il coso pro-capite ("Tanto vale far partecipare più persone, male non farà").
Sul piano politico, l'idea di fondo è quella di non scontentare nessuno ("Come posso non invitare anche Tizio o Tizia? Come giustificargli/le la sua esclusione?")
Il trainer, invece, sente lo stress del dover portare un risultato a tutti i costi, e allora rischia di cedere alla rassicurante sensazione che può dare un bell'elenco - il più lungo possibile - di temi, costrutti, citazioni, dimostrazioni, tecniche.
Forse ciò nasce dal fatto che il trainer stesso parte dalla visione del proprio armamentario professionale, anziché dalle necessità formative dei destinatari: nel senso che si chiede subito a quale serbatoio attingere, quali "armi" utilizzare. E in quest'ottica, mi si passi la metafora, è forte la tentazione di "sparare a pallettoni" anziché di utilizzare un fucile di precisione.
Ma l'esito combinato di queste due scelte "d'ampiezza" è un sostanziale depotenziamento dell'efficacia del corso.
Infatti, da un lato l'allargamento della platea abbassa l'efficacia del trainer sul singolo partecipante e sul gruppo: più persone da seguire contemporaneamente significa maggiori difficoltà a innescare un vero dibattito, a essere davvero interattivi, a "dar retta" a ciascuno, a cogliere ogni sfumatura.
Dall'altro, si rischia di voler riempire troppo un contenitore che, in termini di tempo disponibile, è anelastico: col risultato che i destinatari del corso ne escono con la testa fin troppo piena di stimoli, e che il trainer è costretto a non dare troppo spazio al dibattito, nel timore di dover rinunciare ad affrontare qualche tema previsto nel programma.
Di gran lunga preferibile, invece, concentrarsi solo sui contenuti che servono - che sono poi quelli direttamente connessi ai comportamenti-bersaglio - e proporli esclusivamente alle persone sulle quali in quel momento l'azienda ritiene che davvero valga la pena investire in formazione. Un approccio, insomma, che preferisca la profondità all'ampiezza.
mercoledì 3 ottobre 2012
I sei principi del metodo TiPERSEI – b
L’IDENTIFICAZIONE DEI
TRAGUARDI
T1: "Identificazione dei
traguardi" - Oltre agli obiettivi di massima ed
ai valori di fondo del percorso di sviluppo/formazione, chiediamo al cliente di
descriverci le situazioni
concrete in cui si aspetta
dei miglioramenti e, in esse, di concordare con noi i comportamenti-bersaglio che ci si deve aspettare di osservare
durante il progredire del percorso stesso.
Di norma,
nella formazione tradizionale, il trainer inizia la progettazione del corso
intervistando il committente per mettere a fuoco i valori professionali di
massima ai quali dovrà tendere il corso stesso.
Ci si
confronta allora sulla situazione attuale e sugli obiettivi dell’azienda,
individuando dei bisogni formativi che, così come sono formulati, descrivono
delle tendenze augurabili di atteggiamento o di comportamento.
Si tratta
magari di rendere i venditori (se di venditori si tratta) più abili nel gestire
il dissenso del cliente, o ad argomentare facendo leva sulle sue motivazioni d’acquisto.
Se si parla di manager, potremo mirare a una loro maggior determinazione nel
controllo, o una più obiettiva e oggettiva capacità di diagnosi, o ancora a
uno stile di leadership più partecipativo.
Certamente
il trainer accorto si farà descrivere una serie di situazioni in cui i
comportamenti osservati ancora non si conformano a tali modelli; magari
riuscirà ad ottenere di poterli osservare sul campo.
Dopo di
che, rientrato nel suo studio, pescherà dal proprio armamentario le tecniche, i
costrutti e le casistiche più adeguate da proporre nella didattica.
Tutte cose sacrosante: ma fino a qui, piuttosto generiche. Non
facili da trasformare in veri e propri obiettivi. Poco misurabili. Affermare
assai sinteticamente, ad esempio, che i quadri dell’azienda devono “uscire da una visione
tecnocratica del ruolo, al fine di avvicinarsi a una gestione più prettamente
manageriale”, attraverso “la delega
verso i collaboratori”, “la capacità di proporre soluzioni anziché
descrivere i problemi” è solo una premessa necessaria, ma non sufficiente.
Cosa vuol dire, in concreto e in quell’azienda, nel
lavoro quotidiano di quelle dieci o dodici persone, migliorare la delega verso
i collaboratori? Non sarebbe il caso di spingersi a un livello di precisione
più puntuale?
Con TiPERSEI lo facciamo.
Il metodo prevede infatti (si veda anche http://metodotipersei.blogspot.it/2012/08/dai-massimi-sistemi-ai-comportamenti.html), che per ogni situazione
osservabile, il cliente non si limiti a descriverci i comportamenti non
conformi ai nuovi standard. Ci spingiamo invece ad identificare e descrivere
con lui, con il maggior grado possibile di precisione, i comportamenti-bersaglio
che costituiranno poi i veri obiettivi dell’intervento di formazione.
Nel caso dell’esempio che abbiamo appena portato,
ci spingeremo a definire comportamenti di delega quali:
-
assegnare
gli incarichi in base alle capacità delle persone, e non alle emergenze;
-
riuscire
a far condividere la delega a chi la riceve, anziché limitarsi a trasmetterla;
-
negoziare,
con chi la riceve, gli obiettivi e le scadenze;
-
programmare
con lui i momenti di controllo, e rispettarli.
Supponendo che con il committente riteniamo
sufficienti questi quattro obiettivi formativi, potremo decidere che essi
potranno essere affrontati in un programma che si articolerà in tre riunioni
brevi secondo il metodo TiPERSEI.
Siccome tra una riunione e l’altra passeranno
due-tre settimane, già dopo la prima riunione dovrà essere possibile osservare
la comparsa dei comportamenti-bersaglio che saranno stati affrontati in quella
sede.
Ecco perché il metodo TiPERSEI è detto anche “ad
efficacia programmata”!.
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