QUELLO CHE SI LAMENTA
DEI PROPRI COLLABORATORI
Proseguiamo
la serie di post sulle inefficienze causate dal comportamento quotidiano dei
manager, in termini di gestione dei collaboratori o di problem solving &
decision making.
Un
giorno, quando non avevo ancora capelli bianchi ed ero un consulente junior di
belle speranze in un grosso studio di Milano, il collega senior che mi seguiva
mi disse: “non dimenticarlo, ci sono due tipi di manager: quelli che si
lamentano dei loro collaboratori, e quelli che non se ne lamentano.”
Osservando
la realtà, da allora ho potuto osservare innumerevoli volte che il collega
aveva ragione. E ho constatato che, alla lunga, ogni capo finisce con
l’avere i collaboratori che si è meritato. Beninteso: non voglio dire che se ha
preso in mano un branco di incapaci deve trasformarli in geniali
professionisti. Voglio solo dire che, con il materiale umano che ha a
disposizione, un manager può lavorare per tirarne fuori il meglio (per poco che
sia), o rassegnarsi e lamentarsene.
E’
altresì facile constatare che i manager scontenti del loro staff hanno poche,
ma ricorrenti e diffusissime lamentele al riguardo. E difficilmente hanno a che
vedere con l’intelligenza o l’esperienza delle persone. Quasi sempre, invece,
sono lamentele inerenti alla loro disponibilità a collaborare lealmente e a
mettersi in gioco: “sono rigidi”, “non sanno assumersi le loro responsabilità”,
“sono polemici”, “non sono motivati”, e via elencando.
Quando si vanno ad osservare i comportamenti dei loro collaboratori, ci si accorge
che a uno sguardo superficiale effettivamente c’è rigidità, scarso senso di
responsabilità, o basso livello di motivazione.
Ma
a una analisi più attenta ci si rende conto che la realtà è diversa, e che i
collaboratori di quel manager non chiederebbero di meglio che essere lasciati
agire in autonomia. Ci si accorge che non si assumono le proprie responsabilità
perché le decisioni sono state tutte prese altrove, e loro sono solo esecutori
– ai quali però viene imputata la “colpa” di tutto ciò che non funziona.
Insomma
emerge molto spesso che, al di là delle lodevoli petizioni di principio sulla
propria volontà di motivare e coinvolgere, il manager che si lamenta del
proprio staff è un autoritario, e che magari non ne è nemmeno consapevole.
E’
l’esempio vivente del manager che abbraccia la teoria “X” di Mc Gregor.
Secondo McGregor esistono due
mentalità manageriali di fondo, tra loro opposte, ciascuna delle quali deriva
da alcune credenze radicate, che chiamò teoria
X, e teoria Y.
Per
chi crede nella teoria Y, invece, l’Uomo cerca nel lavoro gratificazioni di
tipo anzitutto psicologico, è capace di autoregolare il proprio impegno in
funzione della necessità senza bisogno di minacce, anzi si ritiene che i
controlli e le punizioni tendano a limitare la sua naturale predisposizione ad
agire con responsabilità e in autonomia.
E’
quasi inevitabile che il manager convinto della teoria X finisca con il
trattare i suoi collaboratori come se
davvero fossero inaffidabili.
Ecco
allora che non chiede mai il loro parere su decisioni che li possono
riguardare. Eccolo impartire ordini e istruzioni senza spiegare il perché delle
decisioni retrostanti.
Ecco
che chiede azione e iniziativa, ma al minimo errore istruisce un processo.
Ecco
che trasforma con il proprio atteggiamento ogni critica, pur legittima, in una
accusa.
Per dirla con Goleman, è un leader
dissonante. Per citare Goleman stesso (Goleman et al., Essere Leader, BUR Saggi, 2008), “la dissonanza … si riferisce … a una mancanza di armonia. (…) Il
dilagare della rabbia, della paura, dell’apatia e perfino di un silenzio
pesante denota …dissonanza. (…) In poche parole, la dissonanza deprime le
persone, le sfinisce, …comporta anche un alto costo individuale: le emozioni
tossiche vissute nell’ambiente di lavoro continuano infatti a esercitare la
loro azione venefica anche tra le pareti domestiche.”
Più oltre, Goleman rincara la dose: “Esistono innumerevoli tipi di leader
dissonanti, che non solo mancano di empatia (e quindi non sono in sintonia con
il gruppo), ma trasmettono emozioni generalmente risonanti su un registro
negativo. Abbiamo constatato che la maggior parte dei leader dissonanti non è
nemmeno consapevole di esserlo; semplicemente, essi difettano delle
fondamentali competenze di intelligenza emotiva che consentirebbero loro di
esercitare una leadership risonante.”
Ora, Goleman non nega che nel breve
termine uno stile autoritario ed impositivo possa avere una certa efficacia:
dopo tutto la paura ha degli effetti. Afferma però che questo metodo di comando
non può essere usato nel medio-lungo termine, senza pessime ripercussioni sulla
motivazione e la coesione del gruppo.
Questi
manager confondono la meritocrazia con la paura. Ma la ricerca dei colpevoli non genera più
responsabilità. Provoca invece un grande spreco di tempo e di energie delle
persone, che non agiscono per non sbagliare, e che cercano di occultare i propri
errori anziché porvi rimedio.
“Meritocrazia”
non vuol dire che “chi sbaglia paga” – anche perché allora dovrebbero pagare
anche loro, i manager…
Meritocrazia
vuol dire incoraggiamento del merito. Quante volte si perde un’infinità di
tempo per “ricercare il colpevole” di un errore, anziché la causa degli errori?
Quanto denaro, in termini di costi occulti, si spreca, per il solo fatto che le
persone avendo paura di prendere iniziative aspettano che il capo abbia
finalmente il tempo par dare parere positivo, e nel frattempo tutto si ferma?
Non
ci stancheremo di ripeterlo, i comportamenti quotidiani del manager, ben più
che le grandi decisioni, possono essere determinanti sul funzionamento
dell’azienda e sui costi che deve sopportare.
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