Visualizzazioni totali

giovedì 5 luglio 2012

Pillole di coaching di gruppo - 3


Il patto sociale 
Per un galateo tra colleghi

Proseguiamo la rubrica "pillole di coaching di gruppo" - tecniche utili per trainer e coach. Tutti i contributi sono originali, e tratti dal "Manuale di coaching di gruppo" che pubblicheremo a breve.

Vuoi conoscerci meglio? Vai al nostro sito: http://www.vinciconsulenza.it/
Una delle ragioni più forti, per le quali a volte la formazione fallisce, è che agisce più a livello individuale (cognitivo, motivazionale) che a livello sociale.
In altre parole, se un valore professionale non viene profondamente riconosciuto dal gruppo come tale, se esso non entra a fare parte dell’identità stessa del gruppo, se insomma il gruppo nel suo insieme non si fa in qualche modo garante del fatto che tale valore non resterà sulla carta, ma verrà applicato, vi sono elevate probabilità che resti lettera morta.
Ciò perché l’influenza dell’ambiente sociale in cui il gruppo vive ed agisce può essere fortissima, ed avere un peso assai più rilevante di una riunione formativa.
Una volta conclusa la formazione, infatti, il gruppo si ritrova immerso sino al collo nell’ambiente in cui normalmente operava e opera. Questo ambiente ha le sue inerzie. La prima tra tutte, banalissima, deriva dal fatto che gli altri, gli attori esterni al gruppo (superiori, collaboratori, clienti e fornitori interni ed esterni, altri colleghi) non hanno partecipato alla o alle riunioni formative.
Costoro, che con ogni probabilità saranno ben più numerosi dei membri del gruppo, si imbatteranno improvvisamente in comportamenti diversi dai precedenti: i comportamenti-bersaglio, che i membri del gruppo staranno iniziando ad applicare.
Logico attendersi almeno un pizzico di sconcerto, magari condito da un po’ di ironia o di velato scetticismo.
Chi scrive potrebbe citare una sterminata aneddotica al riguardo, ma probabilmente due o tre esempi saranno illuminanti.
Ricordo un seminario per addetti a un call center, riguardante l’accoglimento delle telefonate in entrata (reclami, prevalentemente), negli anni Novanta. Si trattò quindi di u seminario di formazione tradizionale. Queste chiamate erano smistate all’operatore da un sistema elettronico (“digiti 1 se vuole parlare con un operatore”). Sino a quel momento, nessuna istruzione era stata data loro, in particolare, su quale frase pronunciare per accogliere il cliente, cosicché ciascuno diceva, semplicemente, “Pronto!”
Il comportamento bersaglio consisteva nel dire invece il proprio nome, seguito immediatamente da una domanda, secondo il gusto personale dell’operatore stesso (“Sono Mario, mi dica”, oppure “Sono Giovanna, come posso aiutarla?”, e simili). Il fatto che si cominciò da un gruppo-pilota (una decina di persone su un totale di un centinaio), fece sì che quando la riunione formativa ebbe termine, gli altri novanta operatori, ascoltando queste frasi, cominciarono a motteggiare e prendere in giro i dieci malcapitati, che dopo pochi giorni rinunciarono, per ritornare al vecchio tradizionale “Pronto!”
Un altro episodio mi fu raccontato da un venditore del Sud Italia. Costui, un giovane brillante e desideroso di imparare nuovi metodi, al termine del corso sulle tecniche di ascolto del cliente ritornò letteralmente elettrizzato alla sua zona di vendita. Non vedeva l’ora di sperimentare quanto appreso, e anzi attese il lunedì (il corso era terminato il venerdì) con impazienza, anche perché avrebbe ricominciato l’attività di vendita in affiancamento con il suo Area Manager.
Il lunedì mattina, con un po’ di emozione e molto entusiasmo, si recò alla stazione ferroviaria per accogliere l’Area Manager, il quale era un anziano venditore, abituato ai vecchi schemi e per nulla disposto a credere ai dettami delle nuove scuole. Di più ancora, era piuttosto seccato del fatto che la Direzione avesse sottratto alcuni venditori dalla normale operatività per un paio di giorni, la settimana precedente, per frequentare appunto il corso del quale stiamo parlando.
Cosicché, dopo i convenevoli di rito, la prima cosa che l’Area Manager disse al giovane venditore fu: “Sei stato a Milano al corso di vendita? Ti sei divertito? Bravo. Adesso dimentica tutto perché si ricomincia a lavorare per davvero.”
Inutile dire che questo Area Manager, da lì in avanti, fece un feroce boicottaggio alle nuove tecniche, sia in affiancamento, sia durante le riunioni di zona, facendo leva sulla propria autorità, ma anche sul fatto che una parte dei venditori non aveva ancora partecipato al corso stesso, rendendo così enormemente più difficile il compito al formatore.
A volte si scatena addirittura un’auto censura preventiva: ricordo una ragazza, un’impiegata amministrativa, ch aveva partecipato a un corso sulle tecniche di Time Management. Nel corso del giro di tavolo finale, parlando della necessità di negoziare le proprie scadenze con i clienti interni e i superiori, ebbe a dire, candidamente: “Non so se riuscirò a provarci. Se dico a un collega, o peggio a un superiore, che in quel momento sono occupata e che mi occuperò della sua richiesta tra un’ora o due, non so quali possano essere le sue reazioni... Quindi credo proprio che non lo farò.”
Come si vede, il peso e l’influenza che l’ambiente esterno al gruppo, composto da tutti gli altri attori aziendali e non, può essere devastante.
Stando ai risultati di un’interessante indagine (Newstrom, 1986)[1], secondo i formatori professionisti, nella classifica delle nove maggiori barriere all’efficacia della formazione, ai primi tra posti troviamo la mancanza di rinforzo sul lavoro, le interferenze dell’ambiente di lavoro immediato, e la mancanza di supporto da parte della cultura dell’organizzazione.
In poche parole è come se un gruppo di malati di colera, ci si passi il paragone un po’ ardito, dopo esser stato ricoverato in ospedale ed essere stato guarito venisse reimmesso senza precauzione alcuna in un ambiente completamente saturo di agenti patogeni.
Ora, siccome avremo concordato a priori con la Direzione i comportamenti-bersaglio, dovremmo essere ragionevolmente sicuri che, almeno dalla gerarchia superiore, non si verifichino fenomeni di aperto o inconsapevole boicottaggio. Tuttavia, nel caso in cui i membri del gruppo non appartengano alla dirigenza, sarà opportuno coinvolgere i loro superiori diretti nella elaborazione dei comportamenti-bersaglio, oltre alla committenza vera e propria.
Ma il problema del rigetto culturale da parte dell’ambiente, sia pure un po’ attenuato, rimane. E’ per questo che il nostro gruppo ha comunque bisogno di essere “vaccinato”, prima che il programma formativo raggiunga la sua conclusione.
Il vaccino più potente, in questa direzione, è l’elaborazione di un patto sociale interno al gruppo, che trasformi i valori professionali e i comportamenti-bersaglio che vengono via via condivisi in una specie di decalogo, di “galateo tra colleghi”, e che rappresenti il momento fondante della nuova identità del gruppo dei coachee.
La genesi di questo decalogo non è completamente prevedibile nei suoi tempi e modalità, ma deve permeare di sé l’intero programma formativo, dalla prima all’ultima riunione.
Tuttavia, benché appunto non sia completamente prevedibile, possiamo però identificare alcune fasi caratteristiche.
Anzitutto, nelle prime fasi del coaching, come abbiamo già detto nasce il gruppo psicologico, che ha coscienza di sé e dei propri obiettivi. Un fenomeno tipico delle nascita di un gruppo è che ci si comincia a riconoscere come “noi” che ne facciamo parte, contrapposti a “loro”, gli esterni al gruppo.
In una prossima "pillola", alcuni accorgimenti pratici per il coach.

[1] Citato in “Trasferire l’apprendimento”, di Mary L. Broad e John W. Newstrom, Francoangeli, Milano 2009, pag. 38-39

lunedì 2 luglio 2012

Pillole di coaching di gruppo - 2

IL RUOLO DEL COACH
nel COACHING di GRUPPO

Con questo post proseguiamo la rubrica "pillole di coaching di gruppo" - tecniche utili per trainer e coach. Tutti i contributi sono originali, e tratti dal "Manuale di coaching di gruppo" che pubblicheremo a breve.

Vuoi conoscerci meglio? Vai al nostro sito: http://www.vinciconsulenza.it/

Il ruolo che il coach riveste nei coaching individuali si mantiene immutato nel coaching di gruppo, ma occorre rilevare una importante peculiarità: nel coaching di gruppo il coach è tale nei confronti del gruppo nella sua interezza. Deve cioè relazionarsi al gruppo come si relazionerebbe a un singolo individuo, dotato di una sua propria personalità, che non è la “somma algebrica” di quelle dei suoi membri, ma qualcosa di differente – anche se, come è ovvio, ne è influenzata.
Il fatto che il coach debba stabilire un rapporto corretto con il gruppo, al di là di quelli con i singoli, nasce da due esigenze, una pratica ed una etica. Sul piano pratico, il gruppo psicologico al lavoro si comporta come una specie di “super-individuo” – quindi non avrebbe senso rivolgersi ai singoli separatamente.
Dal punto di vista etico, il mandato che il coach ha ricevuto dalla committenza e dal gruppo stesso, e per il quale è pagato dall’azienda, è finalizzato a un miglioramento globale del gruppo come tale. Questo aspetto non deve mai essere dimenticato, a maggior ragione nei casi in cui  le caratteristiche di uno o più membri del gruppo emergono con tale forza da condizionare, nel bene e nel male, il lavoro collettivo.
Quando una personalità, sulle cinque o sei che compongono il gruppo, spicca su tutte, essa può risultare altamente positiva o, al contrario decisamente di ostacolo. Ma in entrambi i casi può essere pericoloso per il coach focalizzarsi su di essa e attribuirle  così, magari inconsciamente, un peso ancora maggiore (c’è il rischio, per esempio, che gli altri membri si coalizzino contro il coach e questo co-leader, oppure che seguano il co-leader mettendo in crisi il ruolo del coach, o ancora che si dividano in due partiti “pro” e “contro” uno dei due).
Vedremo meglio nelle prossimo "pillole" come gestire tatticamente questo genere di situazioni, ma possiamo già anticipare che se la personalità emergente si comporta in modo funzionale agli obiettivi del gruppo, non bisogna far altro che …lasciarla fare, senza però gratificarla di eccessiva attenzione e anzi limitandone l’esuberanza, per evitare che il gruppo perda di coesione al suo interno.
Se invece il comportamento di questa persona è di ostacolo al buon funzionamento del gruppo, occorre dapprima ignorarlo, poi gestirne l’invadenza – o al contrario l’isolamento – per finire con il fare ricorso alla volontarietà della sua partecipazione: vale a dire che, come extrema ratio, questo membro “centrifugo” andrà preso in disparte e gli si dovrà esplicitare che se si trova in eccessiva difficoltà nel rimanere nei ranghi o nel partecipare attivamente è sempre libero di lasciare il gruppo come atto di responsabilità. E’ ovvio che questa misura andrà applicata in una informale sessione di coaching, nella quale esplorare insieme le ragioni che portano la persona a quello specifico comportamento.
Accade anche, molto frequentemente, che all’interno del gruppo vi siano persone altamente performanti ed altre che vanno un po’ “a rimorchio”. In sé, il fatto che esistano differenze di prestazione individuale non è né un bene, né un male: è così e basta, e il coach lo deve accettare.
Ma si danno dei casi in cui questa polarizzazione è forte, e allora vedremo una o due persone molto “produttive”, a fronte di altrettante sostanzialmente inerti. Il coach farà bene allora a cercare di attenuare questa distanza, stimolando i più tiepidi in tutti i modi, ma senza trasformarli nell’obiettivo del suo agire. I suoi doveri, lo ripetiamo, sono nei confronti del gruppo e non dei singoli, e quindi può e deve occuparsi di questi ultimi ma solo in funzione del gruppo nel suo insieme.
Ciò detto, il ruolo del coach si realizza nella stipulazione di una alleanza con il gruppo. Così come nel coaching individuale, dove il coachee deve sentire in ogni momento che il coach è dalla sua parte, e s’impegna a lavorare con lui e per lui in funzione di un obiettivo che è del coachee stesso, la stessa cosa vale per un gruppo.
Se il coachee – il gruppo nel caso nostro – sente affievolirsi questa sensazione, l’alleanza si spezza e il rapporto di coaching smette di funzionare. Ogni volta che un coachee interrompe anzitempo un coaching, il coach farà bene a chiedersi dove, quando, come e perché questa alleanza sia venuta meno.
Come si è già detto più sopra, questa alleanza nasce dalla copresenza di due fattori; l’ascolto e l’accoglienza. Ne parleremo nella prossima "pillola".