FULL IMMERSION O
IMPARARE FACENDO?
I "corsi" non bastano per imparare, ma solo per capire.
T3 - Tre ore/tre settimane - I persorsi TiPERSEI si articolano su sequenze di più riunioni brevi (tipicamente di tre ore, quattro al massimo), intervallate da periodi di due - tre settimane di lavoro normale.
Per lungo tempo la formazione comportamentale ha propugnato la validità della "full immersion": per tre-quattro giorni - persino cinque in qualche caso - i dodici-quindici partecipanti a un corso manageriale venivano chiusi in un bell'albergo, in una amena località di villeggiatura, e rimanevano in riunione formativa dalle nove del mattino alle sette di sera, con una breve pausa-pranzo e qualche "coffee-break" a conforto.
La sera poi, durante la cena, era di nuovo il trainer a tener banco, e non di rado accadeva persino che egli continuasse a dispensare consigli, cultura e saggezza sino a tarda sera, davanti al caminetto nella hall dell'albergo con un drink in mano.
Si riteneva che, isolando per un congruo periodo di tempo le persone dal proprio ambiente, stimolandole in continuazione e "sfidandole" su un terreno per loro nuovo, si potesse cambiarne in profondità l'approccio, se non la mentalità. L'idea di fondo consisteva in sostanza nel "dare una scossa" all'ambiente, nel tentativo di innescare una rivoluzione di pensiero nel breve volgere di una sola settimana di lavoro.*
Questo tipo di approccio a volte sortiva in effetti dei risultati confortanti e visibili. In qualche caso, riusciva davvero a stimolare l'inizio di un profondo processo di cambiamento - che però, fa bene ricordarlo, aveva successo solo se in seguito l'azienda lo supportava veramente, il che non accadeva spesso.
Ma accadeva anche, e non di rado, che la settimana di full immersion, passato il breve periodo di entusiasmo, rimanesse nei fatti, già a distanza d'un mese, lettera morta.
La ragione di ciò va ricercata, oltre che nel già citato disimpegno dell'azienda nel sostenere il cambiamento, anche in un limite oggettivo di questo tipo di approccio.
Un limite, o meglio un malinteso, che riguardava il significato stesso dei corsi di formazione: esisteva cioè l'erroneo presupposto che il corso fosse sufficiente di per sé, che bastasse ad imparare.
Invece no: il corso serve a capire. Capire se stessi e il proprio ambiente, capire le tecniche e gli approcci che il trainer propone. Ma tra capire e imparare c'è la stessa differenza che passa tra la teoria e l'applicazione, tra la regola e la realtà, tra il progettare e il realizzare.
Ognuno può tornare con la memoria a un corso
di formazione al quale egli abbia partecipato in qualità di “discente”, come si
suol dire. Al termine di un corso ben concepito e condotto, spesso ci si sente
pieni di entusiasmo, con una gran voglia di sperimentare dal vivo quanto vi è
stato illustrato, sia esso una tecnica per scatenare la creatività, o un
particolare approccio al negoziato, o magari una determinata fase del processo
di selezione o di valutazione del personale.
Il “discente”, dunque, torna al suo posto di lavoro, e –
ammesso che l’entropia del sistema non prenda il sopravvento – si mette alla
prova. Essendo però pur sempre discente,
commette probabilmente errori e ingenuità, prende coscienza in modo spesso
demotivante della propria ovvia maldestrezza. Una maldestrezza che, attraverso
i mediocri risultati ottenuti, lo porterà spesso a concludere di non essere
“tagliato” per quella specifica tecnica, oppure che la medesima è “pura
teoria”, non applicabile alla sua realtà specifica.
Ma da cosa nasce quella maldestrezza?
Mancanza d’allenamento guidato, certamente - e qui il coaching aiuta molto. Ma
soprattutto nasce dal non aver ancora potuto far propria quella tecnica,
impadronirsene come di qualcosa che fa parte di lui. Essa gli è ancora
estranea. Probabilmente l’avrà vista “mimare” in aula dal trainer, il quale
però l’avrà “mimata” con il proprio stile, usando le risorse della sua
personalità. E il povero discente si trova così a scimmiottare il trainer o a
cercare alla cieca il proprio stile.
E’ in questa estraneità, che
s’incaglia il più delle volte il processo di apprendimento. Chi ha partecipato
a un corso lo sa bene: è raro che chi lo ha gestito non sia riuscito ad
ottenere comprensione ed adesione, ma il difficile viene dopo - ed è proprio sul difficile, nel "dopo" che la formazione tradizionale lascia soli i "discenti". Proprio nel momento in cui dovrebbero imparare davvero, imparare facendo, quando avrebbero bisogni di qualcuno che li segua e li incoraggi, che li sostenga e li corregga negli errori e ne metta in evidenza i successi**.
TiPERSEI nasce anche da questo: dalla necessità cioè di favorire un apprendimento, rapido sì, ma graduale e "naturale", cioè scandito dai modi e dai tempi dell'esperienza, dell'imparare facendo. Ecco perché ogni progetto TiPERSEI è organizzato su più riunioni brevi, in ognuna delle quali si affrontano in profondità pochi aspetti o tecniche per volta, intervallate da periodi di circa tre settimane di lavoro normale, durante le quali i coachee, con l'aiuto del coach, possono sperimentare subito quanto è stato condiviso nelle riunioni stesse.
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* Nel corso degli anni, questo genere di formazione si è arricchito di ulteriori strumenti, che vanno dalle sessioni di meditazione ai giochi di gruppo en plein air, sino al bungee jumping e alle camminate sui carboni ardenti, o alle tecniche teatrali. Si iniziò a parlare, ed ancor oggi si parla, di formazione esperienziale e di outdoor training. Non è questa la sede per affrontare vantaggi e limiti di queste tecniche di formazione.
**Accanto a questo limite, la formazione full immersion ne sconta oggi un altro: il fatto che i manager, o comunque le persone sulle quali l'azienda ha deciso di investire in formazione, hanno sempre meno tempo disponibile per assentarsi dalla normale operatività, e si fa sempre più difficile poter organizzare un corso residenziale di tre o quattro giornate consecutive a tempo pieno.